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3.3
Lo scafandro e la farfalla
Duecentomila battiti di ciglia. Tanti ne sono serviti a Jean-Dominque Bauby, redattore capo di “Elle” e padre di due bambini, per scrivere la sua autobiografia, “Lo scafandro e la farfalla”. Nel libro Bauby descrive – con grande consapevolezza e ironia – lo stato di paralisi in cui si trova dopo essere stato colpito da un ictus, all’età di 43 anni. Dopo venti giorni di coma, il giornalista si sveglia in un corpo – il suo scafandro – quasi interamente paralizzato: non riesce a muovere un solo muscolo, non può parlare, non riesce a deglutire. Unica eccezione la sua palpebra sinistra, il suo oblò sul mondo. Grazie a quella (un battito vuol dire “sì”, due vogliono dire “no”) e a un’enorme dose di pazienza riesce a comunicare, dall’interno, cosa provano i pazienti “locked in”. La storia di Bauby ci pone domande non banali sul significato di coscienza, concetto che ha in comune con l’intelligenza la sua difficoltà di definizione e i tentativi di essere misurata.
Da alcuni anni le neuroscienze hanno affiancato psicologia, filosofia e religione nell’indagine sulla coscienza. La scienza della coscienza si concentra su cosa si prova a essere se stessi, sul rapporto tra coscienza e linguaggio, comportamento e intelligenza, fornendo alcune certezze e molte domande: noi esseri umani siamo sempre coscienti? Anche da neonati, in coma, durante il sonno, in stato vegetativo o da locked in? E siamo gli unici a esserlo, o possono esserlo anche altri esseri viventi, o persino le macchine?
Bauby ci suggerisce che ci possa essere coscienza dove non avremmo mai immaginato, ma non solo: ci ricorda l’importanza della curiosità, della ricerca e della comunicazione per indagare il mondo e noi stessi.